Un Edipo al femminile - Ti voglio bene più di Dio di Mimmo Sorrentino

1. Chi ha avuto occasione di conoscere il lavoro di Mimmo Sorrentino, o di incontrarlo, sa che una sua drammaturgia ispirata all’Edipo re di Sofocle non può che essere una discesa negli inferi dell’animo umano.
I testi di Sorrentino – tra cui Fratello Clandestino e Ave Maria per una gatta morta – prendono vita da una ricerca accurata svolta per decenni con ‘soggetti a rischio’ e in luoghi di disagio sociale; tale percorso di osservazione porta inevitabilmente il drammaturgo e regista ad addentrarsi nei ‘buchi neri’ della società occidentale (si veda Francesca Serrazanetti, Dall’osservazione al testo. Intervista a Mimmo Sorrentino, «Stratagemmi. Prospettive teatrali» VIII, dicembre 2008, 179-187).


Questa volta viene dissezionata, scandagliata e messa a nudo una storia di incesto, una ‘ordinaria tragedia’ di Avetrana: «in Italia vi è mediamente un’Avetrana ogni due giorni, la famiglia è un’emergenza nazionale», chiosa lucido Sorrentino. Edipo diviene allora un referente mitico immediato e inevitabile: non solo come parte di un patrimonio culturale condiviso (anche per chi non ha letto neanche un verso del dramma di Sofocle), ma anche per il particolare ruolo affidato allo spettatore. La ricerca della verità da parte di Edipo ricorda un’indagine poliziesca, come hanno notato studiosi quali Maurizio Bettini e Dario Del Corno, e scrittori come Robbe-Grillet (Le Gomme, 1953); allo stesso modo, lo spettatore di Sorrentino si confronta con un enigma da risolvere e riuscirà tanto meglio a dipanare i fili se terrà conto del paradigma mitico. Se il richiamo alla tragedia sofoclea è esplicito («come nell’Edipo – scrive Sorrentino nelle Note di regia – i protagonisti non vedono l’incesto finché non viene loro rivelato. L’incesto non si vede»). È fortissima, inoltre, la presenza di un’altra matrice: l’Orestea di Eschilo.

2. Innanzitutto, in Ti voglio bene più di Dio, ci troviamo davanti a una discendenza al femminile: le protagoniste – Irene, Lucia e Alice: nonna, mamma e figlia – rappresentano tre generazioni di donne che si trasmettono la “colpa” in modo per così dire verticale. I due uomini – Gerardo e Guido: marito e amante di Lucia– sembrano inizialmente proporsi uno in alternativa all’altro (così come Egisto e Agamennone), ma si rivelano entrambi insufficienti e inadeguati al loro ruolo.
La linea incestuosa raffigurata da Sorrentino è dunque quella che congiunge una figlia al padre piuttosto che un figlio alla madre: ci troviamo, cioè, di fronte al complesso di Elettra più che a quello di Edipo. Se Sofocle non lascia dubbi circa la natura dei rapporti tra Edipo e Giocasta, anche nei legami affettivi dell’Orestea si possono cogliere impliciti risvolti morbosi. In particolare il viscerale amore filiale di Elettra lascia spazio a una prospettiva psicanalitica, e i ‘vuoti’ del non-detto nel testo eschileo saranno còlti e colmati in seguito: dai drammi di Euripide e Sofocle dedicati a Elettra, in particolare, discende l’atmosfera ossessiva dell’Elettra di Hofmannsthal, o della trilogia di O’Neill Il lutto s’addice ad Elettra, e delle altre riscritture del mito che, sulla scorta di Freud, hanno tanto condizionato lo sguardo novecentesco sull’eroina eschilea. La violenta saga familiare di Sorrentino richiama a nostro avviso anche un precedente cinematografico: è Volver di Almodovar, dove il mito si declina in un noir popolare e una tradizione di incesti – quasi una vocazione, si direbbe – si tramanda ineluttabilmente di madre in figlia. Ma Sorrentino non concede al pubblico neanche il filtro narrativo garbatamente melò, contraddittoriamente solare e quasi fiabesco, che caratterizza la prospettiva del regista spagnolo. La realtà è rappresentata, e proposta al pubblico, in tutta la sua brutalità, senza il sollievo di una trasposizione. (M.G.)

3. Se già il testo, infatti, colpisce per il linguaggio volutamente semplice – a tratti sciatto, comunque crudo e scarno – il regista ci costruisce attorno uno spettacolo potente e diretto, tutto giocato sulla forza e sulla passione degli attori, in una scena spoglia e con pochi oggetti essenziali, come sottolinea Maria Grazia Gregori nella sua recensione alla prima milanese, seguita con “tensione partecipe dagli spettatori” (del teatro.it, 4/02/2011). è proprio lei a definire nel modo migliore questo ‘strano’ Edipo: «Una tragedia della quotidianità per la quale resta impossibile la catarsi, proposta nella dimensione di un “processo” in un piccolo areopago di disperati, alla ricerca di una verità difficile da dipanare, ma lampante fin dall'inizio, con una vittima sacrificale, un “coro” tutt’intorno formato da personaggi che partecipano all'azione ma che in quel momento non ne sono protagonisti, a formare un semicerchio e nel centro la storia di cui si parla, fra pubblici ministeri, giudici e avvocati della difesa». E proprio nel coro (componente antica spesso ridotta o sottoutilizzata nelle moderne riscritture della tragedia greca) riconosciamo uno degli aspetti più interessanti dello spettacolo: Sorrentino lo immagina suddiviso in varie categorie di persone, tutte estranee alla famiglia – dunque meno uniforme rispetto al modello – e gli fa commentare l’azione nel ruolo dell’osservatore onnisciente fino all’ultima scena cruciale che svela l’incesto. Qui il pubblico come si è detto assume il ruolo di Edipo – nelle intenzioni del regista – e accoglie la rivelazione finale con un lungo silenzio sospeso, seguito da un applauso che vuol essere liberatorio, ma non certo assolutorio. (M.T.)