ULISSE IL RITORNO - Viaggio poetico nell'uomo e nell'oggi

Progetto e regia di Corrado d’Elia
Con Sara Bertelà, Giovanni Franzoni, Franco Ravera
Produzione Teatro Libero
Teatro Libero, Milano
27 giugno-13 luglio 2013

 

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Portare in scena Omero, e in particolare l’Odissea, è una sfida ardua con cui si sono cimentati molti celebri registi in anni recenti: da César Brie (si veda M. Treu, Odissee sulla scena un eterno ritorno, «Stratagemmi. Prospettive teatrali» IX [2009] 161-83) a Luca Ronconi (A. Iannucci, L'antro dei classici. A proposito di Odissea: doppio ritorno di Luca Ronconi, «AOFL – Sezione Lettere» II/2 [2007] 240-25) a Bob Wilson (G. Tentorio, L’Odyssey di Wilson ad Atene).

Tutti questi spettacoli, pur diversi, hanno avuto un indiscutibile successo: sfidare Omero, evidentemente, paga. E altrettanto si può dire per Corrado d’Elia, che affronta un modello così alto in modo davvero personale, e potremmo dire autenticamente ‘libero’, come il suo Teatro. Lo spettacolo da lui scritto e diretto attinge ‘liberamente’ all’Odissea per raccontare la storia del ritorno a casa di un uomo (che non è mai chiamato Ulisse) e dei suoi compagni di viaggio: ma più che essere una narrazione lineare si sviluppa come una serie di quadri, di variazioni sul tema, di dialoghi serrati che si svolgono idealmente in un teatro (la scena rappresenta un ristorante greco all’aperto, con i tavoli apparecchiati e il reticolo di lucine appese).

Come il poema omerico, anche lo spettacolo si costruisce su una sequenza di scene: in parte senza parole, sorrette solo da una musica emozionale, ma il più delle volte letteralmente illuminate da un testo poetico denso e toccante, capace di restituire freschezza, autenticità, carica emotiva a un materiale mitico e al tempo stesso contemporaneo che ci parla di esilio e ritorno, di nostalgia e speranza, e dunque ci fa sentire tutti partecipi, coinvolti in prima persona. Ed è forse questo il pregio maggiore del testo, e dello spettacolo: riuscire a mantenere un costante e difficile equilibrio tra il particolare e l’universale, sovrapponendo senza soluzione di continuità suggestioni antiche e riferimenti al passato recente, o al presente.

Così d’Elia rende via via omaggio alla poesia greca, non solo omerica, al cinema di Anghelopoulos, all’intera tormentata storia della terra ellenica e del suo mare, ma anche dei Balcani e dell’Est come luogo dell’anima: Sarajevo, la Grecia, la Turchia vengono evocate dalle parole greche e turche, dagli accenni ai cecchini, alla guerra civile, alla crisi economica, a quel che resta del sogno di un’Europa unita. I nomi geografici disseminati qua e là formano una mappa simbolica, più che reale, e lasciano allo spettatore la libertà di immaginare altre terre, altre guerre, altri ritorni.

Gli unici rimandi espliciti all’Odissea sono semplici didascalie proiettate sulla parete di fondo: riportano numero e titolo della scena, e corrispondono ad altrettanti episodi o personaggi del poema (Ciclopi, Mentore, Calipso, Circe, Nausicaa). Ma lo spettatore può rintracciare altri echi profondi negli intensi dialoghi tra i protagonisti; un uomo che torna a casa – drammaturgo, poeta, controfigura del regista – (Giovanni Franzoni); il suo compagno di viaggio che gli è di volta in volta amico/padre/estraneo (Franco Ravera); una bella donna vestita di bianco che è sposa e amante, madre e sconosciuta (Sara Bertelà). Lei specialmente commuove, per l’intensità e il timbro vocale che ci ricorda sorprendentemente Franca Rame; in particolare nella scena dove il protagonista rivede come in sogno i genitori – il modello è chiaramente l’incontro nell’Ade tra Ulisse e la madre morta – e lei lo abbraccia teneramente con queste parole: «Quando morirò restituirò alla terra tutta la dolcezza che mi hai regalato dal tuo primo sguardo, appena nato, e poi tutte le volte che ti ho guardato, che mi hai guardata».

Con la stessa tenerezza sarà sempre lei – Penelope col velo da sposa – ad accogliere il suo uomo di ritorno a casa, dopo che gli è stato comunicato (in una situazione che replica esattamente quella iniziale) che non verrà messo in scena quello spettacolo di cui è autore: in teoria il motivo per cui è tornato. Ma va bene così, in fondo è il viaggio che conta: e mentre lo sposo e la sposa danzano, prima che li avvolga l’oscurità, non possiamo non pensare ai versi di Kavafis, a quell’Itaca che qui non è citata, ma potrebbe fare da epigrafe all’intero spettacolo: «Itaca ti ha dato il bel viaggio... Che cos’altro ti aspetti?».