Lucano in Baudelaire. La Pharsalia come manifesto di una nuova poésie de la décadence

Scritto da Greta Gerthoux.

Abstract

Il presente contributo si propone di fornire alcuni spunti per approfondire il tema della ricezione di Lucano in Baudelaire. Principalmente documentato dalla corrispondenza epistolare e da progetti incompiuti, l’interesse per la Pharsalia si colloca infatti nel vivo del dibattito culturale dell’Ottocento. Ad alcune premesse sull’estetica di Baudelaire seguirà un’analisi di passaggi selezionati delle  Ètudes de moeurs et de critique sur les poètes latins de la décadence di Désiré Nisard, grazie ai quali sarà possibile individuare nella scelta di Lucano come modello una presa di posizione anti-accademica. Infine, si passerà a considerare il rapporto tra la produzione di Baudelaire e un episodio in particolare della Pharsalia. Questa sezione, incentrata sulla disamina di alcuni casi-studio specifici, offre inoltre la possibilità di riflettere in modo più ampio su un tratto fondante e costitutivo della poetica baudelairiana, vale a dire la rappresentazione del dato letterario antico in funzione della modernità.

This essay aims to provide a deeper insight into the reception of Lucan in Baudelaire's production. Baudelaire’s fascination for Lucan’s Pharsalia, which is mainly recorded in letters and unaccomplished projects, needs to be considered within the frame of the cultural debate spreading in the first half of nineteenth century. After some preliminary thoughts on Baudelaire’s aesthetic principles, and the ways in which they interact with ancient and modern poetic theories, I will deal with a selection of passages from Désiré Nisard’s  Ètudes de moeurs et de critique sur les poètes latins de la décadence. This enquiry will allow me to display the possibility that Lucan serves as an anti-academical model by providing examples of how Baudelaire revised patterns and atmospheres from the Pharsalia. The analysis of some specific case studies also aims to contribute to the discussion on a fundamental and constitutive trait of Baudelaire's poetics, namely the complex relationship between Ancient and Modern.

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Regnorum numen commune duorum: alcune variazioni del mito di Persefone da Omero a Louise Glück

Scritto da Francesco Chiacchio.

Abstract

A partire dalla lettura e dall’analisi della figura di Persefone così come trattata da Louise Glück, recente premio Nobel per la letteratura, il contributo si propone di ampliare l’indagine a quattro forme antiche di narrazione dello stesso mito: l’inno omerico a Demetra; le due formulazioni ovidiane, rispettivamente in Fasti e Metamorfosi; il poema latino tardo-antico de raptu Proserpinae di Claudio Claudiano. Attraverso l’interpretazione di alcuni passi selezionati, si cerca di mettere in luce come di volta in volta la vicenda stessa e la caratterizzazione dei suoi personaggi muti in funzione del contesto e della volontà dell’autore: dal valore “collettivo” che il mito assume all’interno dell’inno, fino ad arrivare a un potenziamento progressivo della componente emotiva e dell’approfondimento “psicologico” dei personaggi coinvolti. L’intenzione è quella di far risaltare da un lato l’originalità della rielaborazione moderna di Louise Glück, dall’altro invece il recupero di alcuni aspetti della tradizione che arricchiscono l’esperienza del lettore e ne ampliano le possibilità di lettura.


The paper is based on the analysis of the figure of Persephone made by Louise Glück - recently awarned with the Nobel prize for the literature. It also suggests four other narravites of the same myth: the homeric hymn to Demeter; two reworkings by Ovid, in Fasti and Metamorphoses; the latin late-antique poem de raptu Proserpinae by Claudian. Through the reading of some selected passages, an attempt is made to make clear how the story and its characters change according to the context and the author’s will: from the “collective” view the myth employs in the hymn to the progressive expansion of the emotive component and to the “psychological” deepening that involves the characters. The aim of this paper is to emphasize Louise Glück modern reworking’s originality, but also the fact that the reworking itself regains some elements from the ancient tradition that make richer the reader’s experience and expand the possibilities of interpretation.

 

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Mille1notte. Storie dell’altro mondo di Massimo Capaccioli

Scritto da Mariantonietta Paladini.

 

Dovendo ritrarre, con una sola immagine, le Mille1Notte. Storie dell’altro mondo, l’ultimo libro dell’astrofisico Massimo Capaccioli, pubblicato a Caserta 2018, con Mediterraneo Editrice, si potrebbe iniziare dal capitolo “Un antico mestiere si rinnova”, quello in cui l’A. ricorda se stesso intento a sorseggiare la sua tazza di caffè solubile, mentre osservava il cielo dall’alto di una ‘cupola’ cilena, in compagnia del suo collega indio Miguel.

L’immagine scelta potrebbe sembrare banale, ma da questa breve incursione nella esperienza personale, si evince subito che non solo acume e studio inarrestabile sono i requisiti necessari per fare di un uomo uno scienziato, ma esperienza vissuta, lunghe osservazioni, letture scientifiche, riflessioni profonde, e poi viaggi in terre lontane, incontri professionali importanti, perfino notti insonni ed attese. Eppure non tutti gli scienziati si ricordano, come chi ha scritto questo libro, che la scienza è fatta dagli uomini, soggetti a peculiarità caratteriali ed esistenziali, ad accidenti personali e storici, e perfino ad equivoci, voluti o inavvertitamente creati della storia. La Scienza non è un logos universale alla maniera stoica o provvidenziale-cristiana, ma il frutto del logos umano, passato dagli equivoci dell’antichità alla tendenziosità dei secoli della Riforma, passando nelle strettoie della storia moderna fino a quelle dei tempi odierni, che si sforzano, meglio di ieri, di raggiungere l’inafferrabile consistenza di una verità sempre in evoluzione.

Per questo Mille1Notte è un libro al tempo stesso di astronomia e di storia. Da un lato cerca di somministrarci in brevi capitoli pillole di astronomia, astrofisica e di storia astronomica, dall’altro ci racconta per episodi la storia dell’Antichità e del Rinascimento, della Napoli di Gioacchino Murat e della restaurazione borbonica, della guerra fredda e della moderna tecnologia. Si tratta di difficili meandri nei quali sarebbe facile perdersi, ma questo non succede perché, come il titolo ci suggerisce subito, l’Autore ha deciso di affidarsi ad un éscamotage: quello di affidare ciascuno dei suoi ‘segmenti’ astronomici ad una storia o ad una favola, in modo che noi lettori ci facciamo trasportare più volentieri da una narrazione che, benché storica, assume a volte i tratti della favola, per essere condotti fino al cuore dei suoi insegnamenti.

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Ritualizzare l’indicibile, spezzare le forme: una riflessione su Riten di Ingmar Bergman e Le Baccanti di Euripide

Scritto da Francesco Padovani.

Abstract

L’articolo ripercorre la riflessione sulla tragedia greca, in particolare sulle Baccanti di Euripide, sviluppata da Bergman nel corso degli anni ’60. Il focus non riguarda le messinscene teatrali delle Baccanti, ma si sofferma sui modi più sottili in cui il paradigma tragico influisce sulla sceneggiatura del lungometraggio per la televisione Il rito (1969). Ne emerge uno scavo approfondito dell’antichità classica da parte del regista, che attraverso la lente degli studi antropologici sul mondo antico affronta nel film il problema della persistenza del classico nella società contemporanea, da lui stesso indicato come un tema cruciale per la sua concezione dell’arte all’inizio degli anni ’60.

 

The article aims to reconstruct Bergman’s attitude towards ancient Greek tragedy focusing on the case study represented by the TV-movie The Ritual (1969). According to Bergman’s view of contemporary art as a parasite living in the snakeskin of ancient art, The Ritual shows a profound debt to Euripides’ Bacchae. The numerous allusions to the Euripidean tragedy lead to a peculiar appropriation of Greek drama. It corresponds to Bergman’s own artistical and theological idea about the limits of human condition when facing the divine: Videmus nunc per speculum et in aenigmate (1Cor. 13, 12).

 

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Fregi classici in miniatura: il Partenone e il tempio di Bassae di John Henning

Scritto da Simone Rambaldi.

 Abstract

La Gipsoteca del Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo, di recente riallestita, possiede tra i suoi calchi due gessi di grande interesse. Si tratta delle repliche delle versioni miniaturizzate dei fregi del Partenone e del Tempio di Bassae che lo scultore scozzese John Henning realizzò a Londra, nei primi decenni dell’Ottocento. Le riproduzioni furono inizialmente incise su piccole tavole di ardesia, dalle quali potevano essere ricavati calchi in gesso, destinati alla vendita. Ne nacque presto un lucroso commercio di copie non autorizzate, dal quale purtroppo Henning non guadagnò nulla. Tali manufatti, che poche volte hanno attirato l’attenzione degli archeologi, assolvevano una duplice funzione: da un lato servivano allo studio (nelle gipsoteche universitarie), dall’altro erano utilizzati come elementi d’arredo (nelle case private). Questo secondo scopo assume uno speciale significato storico-culturale. Le repliche di Henning, il quale riprodusse il rilievo ateniese anche in pietra su due edifici londinesi, testimoniavano la rapida diffusione della conoscenza dei due fregi di età classica, solo da poco tempo noti all’Europa. I piccoli calchi, inoltre, si adattavano bene al gusto dell’epoca, perché, nonostante la sorprendente fedeltà agli originali, le loro nitide figure sembrano emanare un’aura più neoclassica che classica. Essi, perciò, appaiono allo stesso tempo due tipici prodotti “industriali” del XIX secolo.

The Plaster Cast Gallery of the Department of Cultures and Societies at the University of Palermo, renovated recently, includes two very interesting casts. They are two plaster replicas of the miniaturized reproductions of the Parthenon and Bassae friezes, made in London by the Scottish sculptor John Henning in the first decades of the 19th century. The reproductions were initially carved into small slate slabs, from which plaster casts could be obtained and sold. A lucrative trade of bootlegged copies arose, but Henning gained nothing by that business. These artefacts, which have seldom captured the attention of the archaeologists, performed a twofold function: on one hand they were useful for study (in academic plaster cast galleries), on the other hand they were used as furnishing elements (in private houses). This latter aim takes on a special historical and cultural meaning. The replicas by Henning, who reproduced the Athenian relief also in stone on two London buildings, testified the fast spread of the knowledge of the two classical friezes, newly known by Europe. The small casts, furthermore, were suitable for the contemporary taste, because, despite their astonishing fidelity to the originals, their sharp figures seem to emanate a more neoclassical than classical aura. They, therefore, appear two typical “industrial” products of the 19th century at the same time.

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