«Oggi come ieri, teatro è responsabilità, consapevolezza di problemi civili, etici, comportamentali, impegno a scelte personali che possono essere traumatiche, ma che devono considerarsi ineludibili.
Oggi come ieri, teatro è acquisizione e governo di mezzi d’espressione, affermazione di umane conquiste, esaltazione di forze individuali e di esigenze sociali. Oggi come ieri, teatro è libertà, lotta per essere artefici della propria sorte, ricerca del significato dell’esistenza, meditazione di interrogativi spesso destinati a rimanere senza risposta, rifiuto di essere oppressi, disdegno di farsi oppressori».
Con queste parole Giusto Monaco, l’illustre filologo cui si deve tanta parte della fortuna che ha conosciuto la drammaturgia greca e latina, nell’ultimo scorcio del Novecento, sul duplice versante della ricerca scientifica e della sperimentazione scenica, definiva, poco prima di morire, natura e ruolo del teatro.
Non solo del teatro antico, ma del teatro in quanto tale. Non sfuggiva a Monaco che le antiche fabulae furono concepite come copioni destinati alla scena, che la filologia, che ha per oggetto quel corpus di opere deve, dunque, essere in primo luogo filologia teatrale, che non ha fondamento alcuno la pretesa della fedeltà archeologica nella riproposizione di tragedie e commedie classiche, laddove occorre, piuttosto, mettere a frutto le modalità proprie della comunicazione teatrale contemporanea e, contestualmente, render manifesta l’irriducibile alterità di voci che parlano di una civiltà lontana da quella odierna, seppure in qualche misura ne è all’origine.
La via lucidamente individuata era quella dell’indagine che contaminasse ambiti tra loro tradizionalmente distanti, filologia classica e riflessione teorica sui linguaggi della drammaturgia, archeologia e antropologia: la mise en scène, in questa chiave, doveva costituire un momento di sperimentazione e di verifica, capace di rendere il grande patrimonio culturale degli antichi, troppo spesso divenuto sapere specialistico per pochi raffinati esegeti, bene “popolare”, condiviso cioè da vasti strati sociali, per lo più rimasti esclusi dall’accesso a una cultura tradizionalmente “alta”.
Si trattava, in tutta evidenza, di una scommessa rischiosa, ma per oltre un ventennio vinta, con risultati difficilmente prevedibili, tanto dal punto di vista del progresso degli studi quanto per il successo riscosso da produzioni drammaturgiche che si avvalevano, in modo talora assai felice, dell’innovativa sinergia di antichisti e di professionisti del teatro.
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