Classical Tradition in Modern Fantasy, Brett M. Rogers, Benjamin Eldon Stevens (eds.), coll. «Classical Presences», Oxford University Press, New York 2017,
A due anni di distanza da Classical Traditions in Science Fiction (recensito sul precedente numero di questa rivista da Domitilla Campanile e Rossana Valenti), gli stessi Brett M. Rogers e Benjamin Eldon Stevens hanno curato un sequel dedicato alla tradizione classica nella moderna letteratura fantasy. Ora, raramente i sequel sono migliori del primo episodio. Anche in questo secondo volume invano si cercherebbe una definizione esatta del genere che tratta. Riconosciamo volentieri che trovare una definizione comprensiva e al tempo stesso rigorosa del fantasy era e rimane una mission impossible, tuttavia una maggiore armonizzazione dei quattordici contributi da questo punto vista sarebbe stata auspicabile, e probabilmente possibile.
L’introduzione dei due curatori mette comunque le mani avanti e cerca di indicare una pista da battere. Lo fa a partire dalla seconda edizione (1765) di The Castle of Otranto, il capolavoro del genere gothic di Horace Walpole, la quale ha in epigrafe una citazione attribuita ad Orazio: vanae / fingentur species, tamen ut pes et caput uni / reddantur formae. In realtà, Orazio nell’Arte poetica aveva scritto altro, ovvero: vanae / fingentur species, ut nec pes nec caput uni / reddatur formae. Il senso dell’operazione walpoliana è chiaro: mentre il poeta romano condannava le immagini che sembrano nascere dai sogni di un febbricitante, dove né capo né piedi si accordano in una figura organica, lui stesso rivendica all’opposto la possibilità (e l’efficacia) di ricondurre le fantasie più disparate ad unità artistica. In effetti – lo dice nella prefazione – la sua ambizione era quella di miscelare…
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