Variazione novecentesca sul mito platonico della caverna: La caverna di José Saramago

Scritto da Emira Armentano. Pubblicato in: Pagina

Partendo dall’archetipo del mito platonico della caverna, con il suo bagaglio di suggestioni filosofiche ma anche narrative e antropologiche, l’articolo proposto punta sulla funzione di “ipotesto” che il mito platonico assume nella scrittura-riscrittura letteraria che dall’antichità arriva ai giorni nostri. Vedremo, così, attraverso una comparazione tematica e linguistica (e con una nota cinematografica), come in apertura del terzo millennio Saramago si è confrontato con il mito platonico, per interpretarlo e adattarlo a una forma di scrittura che non è più meramente filosofica, ma testo narrativo (di realismo atemporale) che si interroga sul tema del rapporto finzione-realtà, sullo statuto della conoscenza e della libertà, sulla possibilità di autodeterminarsi in una società che rievoca la dimensione kafkiana. Il riferimento al mito platonico, implicito lungo tutta la narrazione, diventa esplicito nel colpo di scena finale, quando il protagonista “vedrà” realmente la caverna di Platone (visione prefigurata, a metà della narrazione, da un sogno), si immedesimerà nei cadaveri-prigionieri e attraverso una vera epifania fuggirà dalla “caverna-centro” e salverà, come avrebbe voluto fare il filosofo platonico che ridiscende nella caverna, la sua famiglia. Ma all’orizzonte si levano nubi di dubbi e perplessità: si può veramente uscire dalla caverna?

Starting from the archetype of Plato’s cave myth, with its load of philosophical, but also narrative and anthropological suggestions, the proposed work highlights the “hypo-text” function the Plato’s myth acquires throughout the ever-lasting endeavour of literary writing- rewriting that spans from the ancient times up to our days. By means of a thematic and linguistic comparison (and a cinematographic reference), we’ll see how – at the beginning of the third millennium – Saramago analyzes the Plato’s myth in order to re-forge and adapt it to a form of writing which is no longer purely philosophical, but rather becomes a narrative text (of atemporal realism). In this way, he wonders about themes like the relationship between fiction and reality, the charter of knowledge and freedom, the possibility to reach a status of self- determination in a society so much imbued with a Kafkian dimension. The reference to Plato’s myth, always present in the background throughout the narration, will explicitly come to the fore in the work’s final twist, when the main character will eventually “see” Plato’s cave (a vision already prefigured by a dream at an earlier stage of the narration), will identify himself with the corpses-prisoners, and through a real epiphany will escape from the “cave-center” and save his family – just as the platonic philosopher who gets back into the cave would have wished to do. But clouds of doubts and puzzlement loom large: is it really possible, in the end, to get out of the cave?

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Classical Tradition in Modern Fantasy, Brett M. Rogers, Benjamin Eldon Stevens (eds.), coll. «Classical Presences», Oxford University Press, New York 2017,

Scritto da G.Pucci (recensione a cura di). Pubblicato in: Pagina

A due anni di distanza da Classical Traditions in Science Fiction (recensito sul precedente numero di questa rivista da Domitilla Campanile e Rossana Valenti), gli stessi Brett M. Rogers e Benjamin Eldon Stevens hanno curato un sequel dedicato alla tradizione classica nella moderna letteratura fantasy. Ora, raramente i sequel sono migliori del primo episodio. Anche in questo secondo volume invano si cercherebbe una definizione esatta del genere che tratta. Riconosciamo volentieri che trovare una definizione comprensiva e al tempo stesso rigorosa del fantasy era e rimane una mission impossible, tuttavia una maggiore armonizzazione dei quattordici contributi da questo punto vista sarebbe stata auspicabile, e probabilmente possibile.

L’introduzione dei due curatori mette comunque le mani avanti e cerca di indicare una pista da battere. Lo fa a partire dalla seconda edizione (1765) di The Castle of Otranto, il capolavoro del genere gothic di Horace Walpole, la quale ha in epigrafe una citazione attribuita ad Orazio: vanae / fingentur species, tamen ut pes et caput uni / reddantur formae. In realtà, Orazio nell’Arte poetica aveva scritto altro, ovvero: vanae / fingentur species, ut nec pes nec caput uni / reddatur formae. Il senso dell’operazione walpoliana è chiaro: mentre il poeta romano condannava le immagini che sembrano nascere dai sogni di un febbricitante, dove né capo né piedi si accordano in una figura organica, lui stesso rivendica all’opposto la possibilità (e l’efficacia) di ricondurre le fantasie più disparate ad unità artistica. In effetti – lo dice nella prefazione – la sua ambizione era quella di miscelare… 

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Il progetto ‘Rovine’ di Gabriele Tinti

Scritto da Gabriele Tinti - Rossana Valenti. Pubblicato in: Scena

 

Diversi anni fa, nel novembre del 2011, si tenne nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli un’iniziativa denominata Alter ego. Poeti al Mann, a cura di Ferdinando Tricarico e Marco De Gemmis, coordinatore del Servizio Educativo del Museo. Si trattava di un progetto che metteva insieme arte e letteratura, e che offriva un’esperienza di ascolto e visione intensa, invitando 40 poeti napoletani di diverse generazioni e matrici estetiche a scrivere versi ispirati ai loro ‘classici’ preferiti: ciascuno degli autori era chiamato a porre esplicitamente la sua identità poetica a confronto con il proprio alter ego classico, recitando il testo in una messinscena performativa accanto a un’opera del Museo scelta dal poeta stesso.

Il suono dei classici. Dialogo per un esperimento di transmedialità filologico-artistica in Eliodoro

Scritto da Marcus Mota - Nadia Scippacercola. Pubblicato in: Scena

L’articolo rappresenta sotto forma di discussione un esperimento di recezione transmediale delle Etiopiche di Eliodoro a cura di Marcus Mota, il quale ha ridotto il romanzo a suite per orchestra in 6 partiture (“audioscene”). Il testo delle Etiopiche è stato messo in musica sulla scorta delle correnti analisi filologiche e narratologiche e sulla base di un procedimento di close reading. Si discutono contesti e limiti di tale operazione, rilevando che l’opera di Eliodoro, ma in generale il romanzo antico, contengono in sé il germe di una tale riscrittura, in quanto eredi del teatro e dell’epos.

The article presents a transmedia experiment by Marcus Mota; he has composed a suite for orchestra in 6 scores (“audioscenes”) based on Heliodorus’ Aethiopica novel. The Heliodorian text was put into music on the basis of current philological and narratological analysis and of a close reading procedure. We discuss context and shortcomings of this operation, arguing that Heliodorus’ novel, but in general the ancient romanc , contain in itself the germ of a such transmedia rewriting, as heir of the drama and the epos.

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Eri Çakalli (regista) Phaedra, chi sei? Diario da una messa in scena del testo senecano nella traduzione di Edoardo Sanguineti

Scritto da Edoardo Sanguineti (Traduzione di). Pubblicato in: Scena

 Fedra, figlia di Pasifae, colei che partorì l’Uomo-toro. Fedra, sorella del Minotauro.

Fedra che vide Teseo uccidere il Minotauro. Fedra, sorella di Arianna.

Fedra che vide Teseo rapire Arianna Fedra moglie di Teseo.

Fedra ama il figliastro. Incestuosa Fedra.

Fa tutto Fedra.

“O terra di Creta, tu che sei la grande regina delle acque immense, e le tue navi senza numero occupano il mare, per tutte le spiagge, e con le tue navi tagli l’oceano praticabile, fino alle coste dell’Assiria, perché mi costringi a vivere qui, nei dolori e nelle lacrime, ostaggio consegnato a un focolare che mi è odioso, sposa del mio nemico? Ecco, il mio marito è fuggito lontano: alla sua moglie Teseo concede la sua solita fedeltà […] . il padre di Ippolito cerca gli stupri, cerca gli illegittimi letti, dentro gli abissi dell’Acheronte.”

 

Lascia sua madre al toro, sua sorella alla solitudine: queste forme d’amore non le interessano.

Abbandona il suo paese come si rinuncia ai sogni. Rinnega la famiglia come ci si sbarazza dei ricordi.

Il suo destino le fa orrore, visto dall’esterno: non lo conosce se non in forma di iscrizione sul muro del labirinto...

 

 

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L’ Ara Pacis di Augusto e la campagna elettorale per le elezioni amministrative, del 2006, del Comune di Roma

Scritto da Gabriella De Marco. Pubblicato in: Arti visive

Il 21 aprile del 2006, ricorrenza del Natale di Roma, il sindaco Walter Veltroni inaugurò il nuovo Museo dell’Ara Pacis progettato dall’architetto statunitense Richard Meier. L’edificio sostituiva la precedente teca realizzata da Vittorio Ballio Morpurgo, tra il 1937 e il 1938, per la committenza di Benito Mussolini. A far da sfondo alla cerimonia del 2006, accompagnata da molte polemiche, il clima “infuocato” della campagna politica per l’elezione, imminente, del sindaco della capitale. Campagna elettorale che, sia nella costruzione del consenso sia nella creazione di un eventuale dissenso nei confronti della giunta in carica, vide al centro del dibattito elettorale anche l’edificio di Meier. L’autrice, dunque, a partire da questa evidenza, analizza nel saggio l’attenzione da parte della politica nei confronti di un progetto che solo ad una lettura disattenta risulta circoscritto all’archeologia, all’urbanistica e all’architettura. Una riflessione, quella proposta da Gabriella De Marco, sollecitata dagli strumenti metodologici della storia dell’arte. Lo scritto, quindi, non è centrato sull’analisi dell’edificio di Meier, sulle modalità dell’assegnazione dell’incarico e sulle altre questioni tecniche su cui esiste un’ampia e qualificata letteratura scientifica, ma sull’uso della storia, dell’archeologia e dell’urbanistica come forma attuale di comunicazione politica ed elettorale. 

Identidad y estética: la Antigüedad clásica en la moda italiana contemporánea

Scritto da Paloma Martín-Esperanza. Pubblicato in: Arti visive

Come esposto nel corso del Seminario “Comunicare l’antico Oggi”, tenutosi il 13 e 14 giugno 2018 presso la Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma - CSIC, nel nostro contemporaneo sono disponibili numerosi strumenti che permettono di diffondere e far conoscere la cultura dell’antico. Nella società odierna, che ha una delle sue principali caratteristiche nel valore dell’immagine, la moda gioca un ruolo fondamentale come veicolo di divulgazione di cultura e come generatore di identità collettive. Per questo motivo si tratta anche di uno strumento adeguato per la diffusione dell’immagine dell’Antichità, in maniera rinnovata, aggiornata e conforme ai tempi moderni, avendo tale ambito una speciale visibilità in Italia. Prova di ciò sono le collezioni di alcuni stilisti italiani come Versace, Valentino e Dolce & Gabbana, che raccogliendo la forza visiva delle risorse all’antichità, hanno contribuito a plasmare un valore estetico per l’Italia contemporanea che assimila la bellezza italiana attuale con quella classica e, in qualche modo, genera una recupero di identità quando la si distingue, ad esempio, dal resto delle mode europee. Antichità, moda e identità compongono, quindi, un trinomio chiave nell’attuale cultura italiana. 

«Profughi. Tra mito e storia» - La Bellezza Ritrovata – A shot for hope. Mostra fotografica di Charley Fazio e dei bambini siriani rifugiati a Kilis

Scritto da Titto Di Vito. Pubblicato in: Dossier

“La cittadina turca di Kilis. Nei territori confinanti con la Siria si trovano oggi milioni di rifugiati e solo a Kilis migliaia di profughi, molti dei quali bambini, vivono in alloggi di fortuna senza alcuna prospettiva se non una difficile, passiva sopravvivenza. Charley Fazio1 durante le sue missioni umanitarie al confine turco-siriano ha lavorato con alcuni di questi fanciulli, sia ritraendone la personale bellezza, sia proponendo loro un progetto formativo attraverso la fotografia. I bambini che hanno avuto la possibilità di partecipare a questa esperienza hanno cercato la loro visione di “bellezza” con l’uso di una macchina fotografica istantanea e hanno così raccontato a modo loro la voglia di sperare e il desiderio di sognare che coltivano come tutti i bambini del mondo. Le immagini realizzate permettono di entrare nell’atmosfera in cui vivono questi minori, di toccare la loro miseria eppure di percepire concretamente la profonda dignità che li anima. Il percorso espositivo diventa quindi uno strumento di interazione educativa attraverso lo sguardo offerto e ricevuto. Ciò che è stato accolto con grande entusiasmo dagli istituti scolastici italiani che hanno aderito all’invito di proporre ai propri studenti una attività didattica diversa e coinvolgente…

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«Profughi. Tra mito e storia» - Siamo tutti parte di una storia

Scritto da Titti Di Vito. Pubblicato in: Dossier

Qualcuno più di altri è protagonista di eventi straordinari, più di altri diventa eroe suo malgrado.

Là dove i tiranni giocano a muovere le pedine di un massacro senza vincitori, una bambina misura il cielo con l’obiettivo di una macchina fotografica. Porge l’orecchio alla voce del vento che, attraverso le mille sfumature della polvere, le porta il racconto di un mondo possibile. Un mondo dove la libertà è un diritto e non una chimera, dove il futuro è una conquista realizzabile e non un incubo senza fine. La bambina strizza gli occhi per cercare il suo istante da fermare nella memoria e non si accorge di fermare la Storia. Mentre scatta la foto, il suo pensiero diventa messaggio di pace, testimonianza del suo vivere e del suo desiderare la vita. Mentre scatta, lei risplende. Bimba minuscola, ma grandiosa guerriera del nostro tempo...

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«Profughi. Tra mito e storia» - La parola, lo sguardo

Scritto da Giusto Picone. Pubblicato in: Dossier

Un gruppo di profughi provenienti dall’Asia Minore approda sulle coste del Lazio. Alle loro spalle una guerra sanguinosa, la gran parte degli uomini e dei bambini massacrati, le donne violentate dai vincitori e ridotte in schiavitù, la città natale data alle fiamme e rasa al suolo. Poi le insidie mortali della navigazione sul Mediterraneo, il naufragio sulle coste dell’Africa settentrionale e infine, per i sopravvissuti, l’approdo sul lido laziale, alla foce del Tevere. Qui l’ostilità delle popolazioni indigene, l’odio crescente per gli invasori stranieri, il proposito di ricacciare in mare i nuovi arrivati.