Fantascienza e mondo classico. Introduzione a un dibattito
Seguire lo sviluppo di un’idea, di una moda o di un genere letterario è sempre un’impresa suggestiva: da una prima intuizione si sviluppano linee di pensiero e procedure narrative che crescono e si ramificano. A volte le cose procedono in parallelo, magari in diverse tradizioni culturali e su diversi registri espressivi, a volte si susseguono nello stesso ambiente; e i diversi rami di un pensiero e di una pratica possono divergere per poi tornare a incontrarsi. Sembra questa, contorta e affascinante, la linea che ha portato all’incontro tra mondo classico e fantascienza: un connubio a prima vista insolito, che però si afferma fin dall’apparizione del libro con il quale, nel 1818, ha inizio, secondo gli studiosi, il genere narrativo oggi identificato come “fantascienza”: Frankenstein or the modern Prometheus di Mary Shelley, che già nel sottotitolo inseriva con decisione il suo personaggio nell’ambito della tradizione classica, pur qualificando con l’aggettivo ‘moderno’ la figura letteraria che poi si insedierà nell’immaginario collettivo identificando sia lo scienziato che la sua mostruosa creatura.
Fin dai suoi inizi, dunque, la fantascienza (o Science Fiction, nella terminologia inglese, con una significativa inversione dei due vocaboli) descrive il futuro valendosi di figure, concetti e miti che pertengono al passato e al mondo greco-romano, e rinegoziando valori e pratiche consolidati da un’antica tradizione.
Gli ultimi anni hanno visto un deciso incremento di interesse per questo tema, sia in ambito accademico che nella dimensione “popolare” della cultura: sono comparsi nuovi adattamenti del romanzo della Shelley (in particolare in vista del bicentenario, che si celebrerà l’anno prossimo), ma sono anche stati organizzati importanti convegni e pubblicate significative raccolte di saggi.
Tra queste, ci è sembrato particolarmente interessante il volume intitolato Classical Traditions in Science Fiction, a cura di B. M. Rogers e B. Eldon Stevens, pubblicato nella collana “Classical Presences” (Oxford University Press 2015): Domitilla Campanile ed io ne abbiamo curato insieme una recensione, alla quale abbiamo unito alcune osservazioni proposte da Simone Foresta, in relazione a una mostra, Cyborg Invasion, che si è tenuta quest’anno al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Completa il dossier uno scritto di Gianpiero Mangano, fisico teorico, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che ha sviluppato alcune considerazioni sul rapporto tra scienza e fantascienza.
Il ventaglio delle prospettive dalle quali è indagata la fantascienza documenta bene l’intreccio delle questioni – estetiche, cognitive, etiche – connesse a questo genere, che, con la sua trascinante capacità di farci ragionare e immaginare, impegna il recensore o lo studioso in un “problema da risolvere”, piuttosto che in un “tema da svolgere e descrivere”.
La mostra Cyborg Invasion, di cui ci parla Simone Foresta, rappresenta un tassello del rapporto tra classico e contemporaneità: l’opera antica è diventata il catalizzatore di un’istanza moderna, che sfida apertamente certe convenzioni di studio e di lettura, lungo il filo di un discorso - fatto di andirivieni, di riscritture e ripensamenti - che continua a dipanarsi nelle nostre mani.
Le riflessioni di Gianpiero Mangano affrontano il nodo del rapporto tra scienza e fantascienza nella confusa condizione, oggi definita come “post-moderno”: la cultura moderna, alla quale dobbiamo la costruzione di straordinarie architetture di sapere, l’espansione ormai irreversibile della gamma dei sentimenti e delle relazioni, la messa a punto di categorie e moduli espressivi ormai stabilmente integrati nel nostro patrimonio, è attanagliata da una crisi profonda. Questa crisi si manifesta anche nel rifiuto e nel risentimento verso quel ‘mondo nuovo’, sempre più spesso rappresentato nella fantascienza come un luogo inospitale e malsano, distopico e violento. Si diffonde l’incertezza generata da continue metamorfosi, distruzioni di siti e di gruppi sociali, esposti ai contraccolpi di eventi remoti o a contraddizioni insanabili. Mentre ‘prima’ eravamo convinti di essere noi a fare e governare la storia, ‘ora’ abbiamo l’oscura impressione – che la fantascienza sa rendere ‘palpabile’ – di vivere in un’epoca disorientata, che ha perso i precedenti punti di riferimento: la fantascienza si pone in questo contesto come “critica” della scienza, e ci spinge a ripensare il presente e l’incerto futuro attraverso il confronto con il passato più remoto, non ancora ‘colonizzato’ da una tecnologia invadente e rischiosa. Passato e futuro, lungo questa linea, si incontrano, perché entrambi lontani dal presente e dai suoi minacciosi scenari: il primo, pre- industriale e pre-moderno, il secondo post-industriale e post-moderno, il primo ‘non ancora’ tecnologico, il secondo ‘non più’ tale, perché la tecnologia ha determinato la sua stessa catastrofe.
Nella Introduzione al libro, intitolata The Past is an Undiscovered Country (pp. 1-24), i curatori pongono importanti questioni relative agli aspetti letterari e a quelli epistemologici insiti nell’analisi del rapporto tra mondo classico e fantascienza.
Nella prospettiva più strettamente stilistico-letteraria si colloca la domanda sulla differenza tra la fantascienza e il fantasy, il genere letterario anch’esso fortemente intriso di riferimenti al mondo classico: mentre il fantasy si basa sull’elemento magico e soprannaturale, la fantascienza fa riferimento a una visione materiale e strumentale e a future applicazioni scientifiche, oggi ‘impossibili’ ma non incoerenti con le conoscenze teoriche attuali. Una verifica di questo assunto è offerta da un film di fantascienza del 2014, Interstellar, il cui produttore esecutivo e consulente scientifico è stato Kip Stephen Thorne, fisico teorico statunitense, uno dei maggiori esperti di relatività generale e astrofisica.
Un altro aspetto sul quale è stata recentemente appuntata grande attenzione riguarda il tema del viaggio fantastico, già coltivato nella tradizione letteraria antica, e vero e proprio motivo conduttore del racconto fantascientifico, sia in riferimento allo spazio che alla dimensione temporale: a questo proposito l’impegno degli studiosi, almeno i più avvertiti, non è però solo inteso a ritrovare e documentare la presenza di questa o quella ripresa testuale, ma piuttosto di provare a riscoprire tutta la modernità che si nasconde sotto la superficie dei classici, e la loro pregnante capacità di collegare, in una vertigine di spazio e di tempo, vicende cosmiche a movimenti – e dubbi – dell’anima.
Sono soprattutto le questioni epistemologiche ed etiche a guidare la linea del ragionamento di B. M. Rogers e B. Eldon Stevens. Le prime si articolano attorno alla constatazione che oggi la nostra conoscenza del mondo è sempre più mediata dalla tecnologia, le seconde si configurano nei termini di una domanda pressante: una comprensione scientifica del mondo deve guidare le nostre scelte sociali, politiche, morali? La somiglianza tra mondo classico e fantascienza si configura da questo punto di vista nella modalità non-teologica di guardare al mondo naturale (a non theological mode of understanding the natural world).
In ogni caso, l’urgenza delle domande che la fantascienza oggi pone ai classicisti emerge dall’interrogativo posto dai due curatori del volume: in che misura il mondo di oggi e del futuro, così pesantemente tecno-scientifico, può rimanere sensibile agli interessi umanistici e allo studio del passato? Questa domanda trova non una risposta, ma un significativo allargamento in una constatazione, che ci riguarda da vicino come studiosi e docenti: nessuna disciplina accademica che non affronti cosa significa essere uomini oggi, e cosa definisce la condizione umana nel rapporto con la scienza e la tecnologia, può dirsi davvero “umanistica”.
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