È bene precisare sin d’ora che ciò di cui voglio parlare non è Scienza, né pretende di esserlo. Si tratta, semmai, di un esperimento – speriamo non infelice – di ricerca applicata o “industriale” nell’ambito delle scienze umane. Ma procediamo con ordine.
Un giorno – siamo nell’aprile del 2018 – mi cerca un mio compagno di scuola, che non sentivo da anni, il regista e produttore Matteo Rovere, e mi racconta una sua idea: vuole girare un film sulla fondazione di Roma; ma vuole che sia un film profondamente innovativo, nel tono e nel messaggio. In genere – mi dice –, i film sulla Roma antica sono ambientati tra la tarda età repubblicana e l’età imperiale (con poca differenza – aggiungerei io – tra Cesare, Commodo e Costantino). L’immagine di Roma che emerge da questi film, quando non è decadente, come nel Satyricon di Federico Fellini (1969) o nel Gladiatore di Ridley Scott (2000), è un’immagine imperiale e patinata, celebrativa e un po’ stantia, più neo-classica che classica in senso proprio, come quella proposta da T. Wyler in Ben-Hur (1959) o da S. Kubrick in Spartacus (1960). Ecco, il regista si proponeva sostituire questa immagine vulgata della Roma imperiale “toghe e colonne” con un’immagine nuova, cruda, barbarica e primitiva – e, dunque, più “originaria” –, che da una parte riportasse la fondazione di Roma a una cultura materiale più vicina a quella effettivamente attestata in molti insediamenti laziali del ferro tardo, e dall’altra ammiccasse all’atmosfera mitico- barbarica di alcune recenti serie TV, come Vikings o Il Trono di Spade (credo, tra l’altro, che per gli aspetti archeologici il regista avesse svolto delle sue ricerche, in cui mi sembra si possa intravedere la lontana eco dei lavori di Piganiol, Mazzarino e Giusto Traina).
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