Della filologia e del viaggiare
Forse non è un caso che gli antichi abbiano chiamato lo studio della letteratura “filologia”, e non, che so, “spoudeologia” (a parte che la parola fa ribrezzo) con una radice che indicasse il lavoro intellettuale, lo studio. Nella parola è impressa la radice del verbo che significa “amare”: la lettura, la fruizione, lo studio dell’opera letteraria è anzitutto un atto d’amore. E viceversa (o analogamente), se ci pensiamo, amare è anzitutto un atto estetico, nella misura in cui si percepisce e si aspira a una bellezza, che tuttavia non è compiuta, non è perfetta se non nel momento e per il tempo in cui anche noi partecipiamo a quella bellezza, il tempo in cui noi siamo parte di un altro e un altro di noi.
È dunque della filologia come amore che voglio parlare, e per questo spero che le mie parole possano avere un senso anche per chiunque ami il mondo classico, provi emozione e piacere nel leggere o nell’ammirare un’opera antica – non importa se si tratti di una tragedia o di una statua, se sia in lingua originale o in traduzione.
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